mercoledì 16 gennaio 2013

Sale giochi a quattro mani

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Ah, che ricordi.
Le vecchie sale giochi italiane, paradisi elettronici tanto cari a chiunque abbia vissuto, nelle piene facoltà mentali, gli anni Novanta. Sigarette abbandonate a bruciar plastica di cabinati, fumo appestante, pestanti bulli, incessante sferragliare di macchinette, coltellate casual e puzzo hardcore. Il Vietnam a pochi passi da casa, insomma, con la brutta differenza di non contenere una quantità sufficiente di amore lungo-lungo.
Noi pargoli dell'era più fessa del Novecento sopportavamo tale condensazione d'ignoranza per non più di un paio di motivi. Il primo, certamente più influente su di me, era la presenza dei cabinati Capcom.
Se avessimo riconvertito il numero di cento e duecento lire spese sul suolo italico per Street Fighter II e Final Fight  in buoni del tesoro ad alto rendimento, probabilmente la mia generazione ora avrebbe la liquidità per comprare la Germania e costruirci un enorme museo per Transformers in scala 1:1.
Ma come facevi a resistere al fascino dei bbugni digitali? Come poteva una giovane mente plasmata sul modello di Kenshiro a non scialacquare la paghetta per godersi gli attachénsplugen di Ken e Ryu (sì, attachénsplugen. Per quanto siano passati gli anni, continuo a non credere che urlino "Tatsumaki Senpukyaku" quando eseguono la famigerata mossa della trottola di pedate) o i piledriver maschissimi di Haggar?



Già… mi ricordo che di questi templi ne esistevano due, nel paesino dove andavo in vacanza d'estate coi nonni. Il primo era più una piccola cappella, giusto qualche cabinato nel bar alimentari vicino casa. La densità demografica di brutti ceffi era tuttavia invidiabile, e un pomeriggio caldo e afoso di agosto io ed il mio socio sacrificammo tutti i soldi che la nonna ci aveva dato per prendere i gelati per tutti (noi, loro e un'orda di prozii che erano venuti a farci visita) sull'altare di The Punisher.
L'altro era più lontano. A volte ottenevo il permesso di andarci. Più spesso no. Era una grossa sala giochi in cima a un precipizio, dall'altro lato della strada del bar. Un po' il Granburrone di noi poveri sfigatelli. Si respirava tanto di quel bullismo, nonnismo e testosterone da far vergognare una camerata di marine. La cosa buona è che la soglia d'attenzione della fauna locale non superava mai i 10 secondi, per cui era difficile cacciarsi in situazioni sufficientemente lunghe da fare troppo male. Io ero il più piccolo della compagnia e quindi era più facile che si allineassero le stelle per il risveglio dei Grandi Antichi che arrivasse il mio turno di giocare. Però quando si liberava lo spazio del Player 2, potevo guardare. 
Una volta Marco Ciccio, che, come è facilmente intuibile, era un bambino estremamente ciccione, aveva vinto un doppio a Street Fighter II. Mi misi accanto a lui, guardando ipnotizzato gli avvincenti combattimenti. Rapito com'ero, non ebbi la prontezza di collegare il rapido declino delle sorti di Honda a cui stavo assistendo con il fiume di parolacce che sgorgava dalla bocca del mastodontico giocatore. Perse e, per sfogare l'inarginabile ira dello sconfitto, mi prese per le spalle e mi lanciò al centro della sala, tre o quattro metri più in là. Marco Ciccio era anche molto alto.

Vero, ma se c'era Ciccio lo spingitore di cavalieri che ti importunava o il tempo d'attesa in fila era superiore a quello alle poste il giorno delle pensioni, poco cambiava. Perché il secondo motivo per cui sopportavamo angherie di ogni tipo, non meno importante, era laggrafica
I giochi arcade erano semplicemente bellissimi e inarrivabili per le console e computer casalinghi. Passare dal Golden Axe in sala a quello per Commodore 64 era un po' come sapere che esiste il soufflé al cioccolato e accontentarsi di una goleador masticata da un bulldog. Tu non uscivi semplicemente dalla cameretta ed entravi in sala giochi, ma facevi un balzo generazionale impensabile. Finivi la partita alla versione castrata di Street Fighter II su Super Nintendo e ti trovavi il mastodontico cabinato di Daytona USA, con il suo treddì e il suo sonoro cristallino che ciao, arrivederci, incatenatemi qui vi prego.
Ti sentivi Colombo, il primo uomo sulla Luna, un'esploratore interstellare, stavi toccando il futuro dell'intrattenimento digitale spendendo pochi (?) spiccioli.

Eh sì, quei baracconi pixellosi erano davvero delle magiche scatole ipnotiche. L'oggetto del desiderio sommo, la più sensuale meretrice, con cui potevi provare il massimo piacere per un breve tempo pagato a caro prezzo, ma che non potevi possedere. Mi ricordo ancora lo spot del SEGA Mega Drive che ne illustrava come principale punto di forza la "grafica dei migliori videogiochi da bar".


Se te lo dice un pupazzo rosa con le adenoidi, credici!


Che poi non era vero niente, ché a quei tempi l'unica console casalinga che davvero teneva il passo era il Neo Geo AES. Peccato che la nostra cultura cattolica ci bloccava dal darci alla prostituzione minorile, e quindi non era proprio possibile spendere qualche milione per giocare ad Art of Fighting. E dire che avresti dovuto, tutti i ragazzini avrebbero dovuto, ma i genitori non potevano capire. Col senno di poi, quell'investimento avrebbe fruttato un sacco di soldi rivendendo l'accrocchio ai collezionisti, ma mai che i grandi riescano a cogliere l'istintiva lungimiranza dei ragazzini. Se un bambino vuole una cosa e in genere non la può avere, c'è un alta possibilità che se la compri da grande. A un prezzo maggiorato.

Magiche scatole ipnotiche. Mi ha raccontato Big Cat che una volta da piccolo, sarà stato l'88 o giù di lì, era in spiaggia con i suoi, poco dopo pranzo, e si annoiava. Così decide col fratello di andare a fare un giro al bar. Arrivati là vedono, massiccio e scintillante, Double Dragon appena uscito. Non si sono portati i soldi, ma restano a contemplare incantati le immagini che scorrono sullo schermo. Ad un certo punto sentono all'unisono un dolore lancinante all'orecchio. Era il padre che, sopraggiunto alle spalle di soppiatto, sferrava una combo. Il sole stava tramontando



Poi purtroppo è successo che le sale giochi in Italia sono morte. A esser sinceri, è il mercato arcade in generale a essere morto, fatta eccezione dello stoico Giappone in cui si rulla cartoni e si spara alle cose esattamente come vent'anni fa.
Purtroppo i costi di produzione di un titolo graficamente maestoso si sono gonfiati a dismisura e una delle principali attrattive di una sala giochi è scomparsa di colpo, lasciando a Playstation 2, Dreamcast e Xbox il compito di titillare i bassi istinti dei videogiocatori. Le connessioni internet e gli emulatori hanno aperto a una scena competitiva online decente e la nicchia di amanti del feeling arcade, con la massificazione del mercato, è andata sempre più restringendosi.
E ora entri in quelle che si chiamano tuttora "Sala giochi" e sei costretto a rimirare con orrore una serie infinita di slot machine, video poker e altre macchine-truffa d'azzardo.
E la facce, diomio, le facce degli avventori! I tamarri col Ciao smarmittato e la cicca sull'orecchio sembrano Lord Byron al confronto.

Mah… l'ultima ragione per andare a giocare ai viggì fuori di casa l'ho vista nel 2001 in una maxisala di Seattle. Ma davvero maxi. 
Ero un tizio dei corpi speciali con un jet pack e me ne andavo su e giù, agganciato a un seggiolino tipo Blue Tornado, per un binario verticale di una decina di metri assieme ad altri quattro tizi su altrettanti binari a sparare a dei terroristi che occupavano un grattacelo.
Poi basta. Adesso l'arcade è un aperitivo, le sale giochi sale d'attesa dove aspettare che inizi il film al cinema o si liberi la pista da bowling.
Le vecchie sale giochi, quelle vere, hanno abbandonato questo mondo, o almeno questo continente, per trasferirsi in un altro piano, che dividono con le cabine telefoniche e i drive-in.

Non possiamo fare niente, se non ricordare con un po' di nostalgia il passato. Se però vedete un cabinato solo e abbandonato in qualche bar, magari vecchio e magari con la manopola rotta, inseriteci una monetina per ricordare i vecchi tempi. Quelli in cui il futuro era fichissimo e a portata del Player One.



Gli interventi in corsivo sono di V.D., in tondo miei, le lacrime invece collettive.

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5 Response to Sale giochi a quattro mani

Alessandro
16 gennaio 2013 alle ore 19:17

Infiniti Complimenti Man; per questo tuffo nel passato che mi avete regalato in questo pomeriggio pre-esame; pausa studio non poteva essere migliore, anche perchè tutto il bellissimo articolo merita anche solo per il link omaggio alle sale anni 80. Erano altri tempi, scomparsi da una evoluzione un po spietata. Mi piace quando dici, che non era solo andare a giocare, ma era anche andare a provare giochi che a casa non potevi provare. Io ad esempio avevo un nes, divertentissimo per carità, ma la grafica era quella che era. e avevo Ghost 'n Goblins fatto in 8 bit, che era un pastrocchio digitale, anche se mi divertiva molto. giocavo a casa, e quando riuscivo a scappare in sala giochi di nascosto da mia madre spendevo l'ira di dio PER LO STESSO GIOCO, ma fatto in una grafica migliore. Poi giocavo a street fighet chiaramente, e anche al gioco di picchiaduro a scorrimento orizzontale dei simpson, che chissà chi se lo ricorda ormai. Il mame comunque non è la stessa cosa. ho continuato a giocare ai cabinati fino a Metal Slug; quello era l'ultimo gioco di cui ricordo aver buttato patrimoni. Ora ho 26 anni, vado per i 27, mi sento vecchiotto, e questo passato non lo ritrovo piu nelle nuove generazioni.

Lokeebot
16 gennaio 2013 alle ore 20:08

Sì, non è esattamente la stessa cosa. In compenso siamo pieni di monetine, non lamentiamoci.

sno
17 gennaio 2013 alle ore 02:08

Bellissimo.
Ed ora vi tocca sorbirvi una mia esperienza che è rimasta impressa nella mia memoria per la sua importanza e che riguarda i cabinati.

(tl;dr)
Oratorio, piena estate, tempo libero dopo pranzo, 42 gradi percepiti anche sotto l'acqua fredda.
Nell'immancabile baretto dell'oratorio... aspettate, apro una parentesi sul baretto perché credo gli sia dovuta.
Il baretto dell'oratorio non è un luogo come molti possono erroneamente pensare, ma un animale. Infatti, pur se differenti gli uni dagli altri, gli esemplari di baretti dell'oratorio possiedono molteplici caratteristiche che li raggruppano sotto un'unica specie, che sono: il colore neutro del pavimento rigorosamente piastrellato che può variare da marrone a verde, le finestre dal vetro acidato con gli infissi in ferro, il bancone di legno smaltato con specchio posto orizzontalmente che lo percorre per l'intera lunghezza, i barattoli da farina contenenti caramelle. Il baretto si nutre principalmente del tempo delle prede che riesce ad attirare al suo interno le quali consistono per lo più in vecchietti brontoloni e bambini urlanti, sudati e puzzolenti che si scannano per le caramelle. Perché quello era l'unico motivo di esistere del baretto. Nessun bambino, a memoria d'uomo, ha mai comprato una bevanda se aveva soldi che avrebbe potuto investire in dolciumi. A costo di morir di sete.
Tuttavia (chiusa parentesi), il mio baretto ebbe un'evoluzione che nessuno si aspettava: comparvero due cabinati. Uno era uno sparatutto a scorrimento verticale dove il giocatore comandava una navicella spaziale contro vari alieni, il secondo era un picchiaduro alla street fighter. Quei due monoliti sono riusciti nei primi forse dieci secondi di ora d'aria a far totalmente dimenticare alla maggior parte dei bimbi (la parte con un cuore che riusciva a farsi emozionare da uno schermo luminoso, la quale coincideva inspiegabilmente con la parte munita di pene) le caramelle gommose di cui tanto andavano ghiotti.
Avevo una decina d'anni o giù di li ed ero al centro di un marasma di corpi puzzolenti di ragazzini più grandi di me, ma non m'importava, perché a pochi centimetri dal mio naso due omaccioni muscolosi e dalla strana capigliatura se le stavano dando di santa ragione.
Chi vince resta. Queste le regole.
Tuttavia un ragazzo un po' più anziano degli altri era fisso al posto del player 1 da diversi scontri mentre macinava umiliando senza sosta chi osava sfidarlo.
All'ennesima vittoria ed alla frase "C'è qualcuno che sappia giocare veramente? Mi sto annoiando" una strana coltre di silenzio pervase il pubblico intorno al viggì.
E fu li che allora alzai la mia manina. Il silenzio si ruppe e mi appiccicarono allo stick. Inserimmo la monetina e via verso un nuovo scontro e questa volta, finalmente, ero io uno dei due bruti che menava le mani come un forsennato.
La scelta del personaggio non me la ricordo. Ricordo solo che ero stordito dai suoni, dalle urla, dalle luci e dall'eccitazione.
FIGHT!
Pigiavo tasti un po' a casaccio, ma gliele stavo dando... e tante per di più.
Vinsi il primo round in breve tempo e mi girai verso il mio avversario con un sorrisetto beffardo mentre lui mi guardava contrariato.
FIGHT!
Secondo round. Usai la stessa tattica vincente del primo e se possibile fu ancora più efficace. Quando vinsi lo scontro non potei credere di aver battuto il campione in carica ed esultai come se avessi vinto al superenalotto.

Allora sentii le risa di tutti quelli intorno a me.
E non erano risa di gioia per la mia vittoria, ma, anzi, di scherno.
Non capii e dal pubblico una voce chiarificatrice urlò "Hai perso! Eri l'altro personaggio, pirla!".

Chiunque sia arrivato a leggere fino a qui lo ringrazio per il tempo dedicatomi.

Lokeebot
17 gennaio 2013 alle ore 02:27

Grazie per aver condiviso questa perla. Che poi davvero ti facevano capire tante cose, le sale giochi. Oltre all'importanza del deodorante, intendo.
Tipo che quello stupido e grosso, che al parchetto si limona le tipe e ti è sempre sembrato una sorta di ottuso titano invicibile, quando lo schianti di mazzate con Joe Higashi su Fatal Fury torna al tuo livello e non ti fa più paura. Anzi, alla fine hai scoperto il segreto della post-adolescenza con parecchi anni d'anticipo, ovvero che sono quelli svegli e capaci di adattarsi a dominare il mondo.

Lokeebot
18 gennaio 2013 alle ore 01:39

Cadillacs & Dinosaurs... credo di avere... uh... qualcosa negli occhi... forse della polvere.

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