martedì 4 dicembre 2012

Morte - Parte terza

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The Witch's House, di Brittney Hamilton

Poggiando la mia giacca sulle sue spalle e frizionandogliele velocemente, ma con delicatezza, per scaldarla un po’: «In una notte come questa deve fare freddo anche per te…».
Si girò, velocemente ma non di scatto, stupita. I suoi occhi: spalancati; le labbra: socchiuse; il mio cuore: balbuziente.
«Ma tu…»
«Sono il fantasma del Natale passato», risposi nel tono più solenne che riuscii a ottenere, sciogliendo, neanch'io so come, ogni distanza e diffidenza in una battuta idiota.
Sorrise, chinando contemporaneamente la testa e scostandosi una ciocca di capelli dal viso, imbarazzata.
«Non per farmi gli affari tuoi, ma è tardi, buio e si gela. Dove vai?»
Scuotendo la testa, senza rialzare lo sguardo e arricciandosi nervosamente la ciocca di prima attorno alle dita che erano ancora lì: «Da nessuna parte».
«Vuoi venire a scaldarti?»
Allora sollevò lo sguardo con espressione interrogativa, insospettita e abbastanza furba, inarcando le sopracciglia.
Decisamente non mi ero espresso nel modo migliore, e neppure in uno lontanamente passabile. E, prendendone immediatamente atto, la mia lingua si annodò: «No, cioè… io non… sì, insomma… nel senso che…».
I fantasmi cominciarono a fare un gran casino e, probabilmente, arrossii.
Lei rise, un risolino breve, divertito e leggero. Fresco come l’acqua.
Ancora i suoi occhi spalancati, due buchi neri, ancora un paio di colpi persi dal mio cuore: «Sì, per favore… grazie. Sto morendo di freddo!»

La legna iniziò a crepitare e scoppiettare. Dentro il camino, dai ciocchi, ben accatastati e ormai rossi e ardenti, si levava una fiamma calda e luminosa. La stanza iniziava a riscaldarsi. Diedi un’ultima attizzata e mi allontanai dal camino.
Percorrendo i pochi passi che ci separavano da casa mia non parlammo. Camminavamo vicini, lentamente, spalla a spalla. Lei teneva la testa china e si stringeva nel mio giaccone. Era alta, sì, e anche se snella tutt’altro che esile, eppure lì dentro sembrava minuscola e piccola. Nel senso di… “piccola”.
E non tremava più.
Io me ne stavo dritto e impettito, lo sguardo fisso di fronte a me, paralizzato dalla paura di dire o fare alcunché, dalla paura di sbagliare. I fantasmi turbinavano e urlavano come impazziti, sovraeccitati.
Mi sentivo come un ragazzino alle prese con la sua prima cotta.
Di donne ne avevo avute, sì. Tante, belle e affascinanti, intelligenti, simpatiche. Ma erano loro che mi cercavano, che mi volevano, che pendevano dalle mie labbra e si buttavano tra le mie braccia. Bastava un sorriso ed era fatta. Non saprei spiegare come o perché, ma in un certo senso era come se facessero tutto i fantasmi. A me bastava stare a guardare e poi, al momento giusto, raccogliere. Erano loro che mi aspettavano.
Ma lei no. Lei non mi aspettava. Lei mi aveva guardato e non mi aveva visto; mi aveva visto arrivare senza avermi aspettato. E quindi io me ne stavo lì come un baccalà, come un imbecille che non sa che pesci prendere, come un provinante, sul palco, che ha scordato il copione.
Ad un tratto, da quel giaccone che su di lei sembrava enorme, spuntò la sua mano bianca con le punte nere. Fredda. Prese la mia, e si portò il mio braccio attorno alle spalle, rannicchiandosi contro il mio petto.
La tenni così, al caldo e al sicuro più che potevo, finché non arrivammo a casa, in silenzio.
«Hai fame?»
«No, grazie. Ma avrei proprio voglia di sedermi davanti a un bel fuoco a bere qualcosa…»
«Porto?»
«Porto!»
Mi avviai al mobiletto dei liquori, a versare il vino in larghi calici. Lei si sedette all’angolo del divano, allungando il fianco sullo schienale e accavallando le gambe, lunghe, bianche, perfette.
I due bicchieri, uno in ogni mano. Lei picchiettava delicatamente sul divano, invitandomi, quasi pregandomi di sedermi al suo fianco.
I fantasmi mi facevano impazzire, mi vorticavano attorno, in ogni direzione, urlavano, mi attraversavano in gruppo il centro del petto. Sentivo un potente flusso, una corrente di enorme intensità pervadermi il corpo. I sensi annebbiati. Vedevo il mondo come da lontano, come da fuori.
Eppure ero lì, ero totalmente lì, ero lì come non c’ero mai stato prima.
Guardandola negli occhi mi sedetti accanto a lei. Le porsi il suo bicchiere.
Senza distogliere lo sguardo, sorridendo: «A cosa brindiamo?»
«Alla vita!»
“Alla vita”. Un brindisi normale, giusto, ottimista. Mi fermai a chiedermi perché, allora, mi risuonasse come un gong nel petto e nelle tempie. Ma fu solo un attimo. Con i fantasmi che parevano presi dall’isteria, immerso del tutto in una situazione che rompeva ogni mio schema, la lucidità era un bene di cui non ero affatto ricco quella sera.
Allungai la destra: «Victor».
Mi prese la mano, lentamente: «… Tania».
Le strinsi la mano, delicatamente, mentre nella mia testa la stringevo forte tra le braccia, poggiando le mie labbra sulla sua fronte, come nella perfetta scena letta migliaia di volte in migliaia di romanzi e racconti vecchi e nuovi, che ogni volta sognavo di vivere.
«Cosa facevi, in giro da sola in questa notte di ghiaccio?»
«Non so, passeggiavo…»
«Vestita così?» Smorfia da ebete imbarazzato «Così leggera, intendevo…»
«… Forse mi ero persa.»
«Per fortuna ti ho trovato»
«Già, per fortuna. Grazie.»
«Fortuna mia, dicevo…».
Ancora guardandoci negli occhi. Sorrise.
Sorrise. Il cuore perse un altro colpo, poi due.
Poi tre. I fantasmi erano ormai impazziti. Credevo che avrebbero distrutto la casa, generato un tornado, fatto scoppiare la mia testa. Ora urlavano, quel suono, quel rumore, come una miriade di lunghi, bassi fischi sovrapposti, di tutti i timbri, di tutti i toni, mi riempiva le orecchie, mi invadeva il cervello.
Scorrevano attorno a me e nel mio corpo. Mi attraversavano e mi permeavano, fluivano violenti dentro di me. In un crescendo, una spirale esponenziale, tendente a infinito, verso l’infinito.
La vista mi si appannò, l’udito si spense, il corpo non c’era più. O meglio, sicuramente c’era ancora, ma io non lo sentivo.
Solo un attimo. Un attimo solo. Ma bastò. Li sentii.
Quel sibilo, quel rumore, quell’orgia di fischi, erano una sola frase, sempre la stessa frase, urlata senza posa, le stesse quattro parole. Loro urlavano di terrore. E non vorticavano a caso, non giocavano ad attraversarmi.
Loro si stavano aggrappando a me.
I fantasmi si aggrappavano disperatamente a me.
Solo un attimo. E capii.



[Continua]


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