martedì 20 novembre 2012

Morte - Parte prima

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Ghost, fotomanipolazione di ~efrafa


Dormivo con i fantasmi. In una piccola casa di pietra, abbastanza vecchia ma non troppo, né è questo il punto. Perché loro non erano lì per la casa: erano lì per me, con me. Di giorno e di notte, mi seguivano ovunque, e se qualcuno restava indietro molti altri subito prendevano il suo posto.
Quando erano pochi erano forse una decina, quando erano tanti erano centinaia.
Non che io fossi un medium. Non al tempo, almeno.
Non sapevo se volevano dirmi qualcosa, non sapevo se volevano parlare; non sapevo perché stavano con me.
Sentivo le loro presenze, costanti, in moto perpetuo, come un rumore di sottofondo disarmonico a cui l’orecchio non si assuefa mai del tutto.
Una moltitudine di individualità fusa in un torrente vorticante, decine di voci indecifrabili che formavano un unico rumore.
Più che un seguito, una corte, erano uno sciame di insetti – falene – che ronzava perpetuamente attorno a me, come attratti da una fonte di luce.
Non è che facessero qualcosa di strano tipo muovere oggetti, agitare lenzuoli, far sferragliare catene o inventarsi altri rumori sospetti. Non facevano scherzetti. Alle volte, tutt’al più, la stanza era innaturalmente fredda e fine della storia.
Né, come ho detto, mi parlavano, o se lo facevano io non li sentivo, non li capivo, non ne ero capace. Solo, sentivo che c’erano. Erano lì. Più o meno a destra, ma a due o cinque metri? Più o meno dieci, ma dodici o nove? Più o meno calmi, ma sereni o malinconici?
Non sapevo se mi volevano bene. Non sapevo se la loro presenza fosse una maledizione o un dono. Non sapevo se mi avessero mai aiutato, o se non avessero mai mosso un dito per modificare la mia vita, o mi avessero messo i bastoni tra le ruote, né se volendo avrebbero potuto, né se l’abbiano mai voluto.
Non sapevo se erano attorno a tutti e solo io li sentivo, o se erano solo attorno a me. O se erano attorno a tutti e tutti li sentivano ma nessuno ne parlava, o se erano attorno a tutti e tutti li sentivano e ne parlavano ma non con me.
Avere mille voci in testa e non sentirne nessuna… come una parola sulla punta della lingua, come un ricordo che sta per riaffiorare, perpetuamente statico nella sua imminenza…
Spesso mi attraversavano schegge delle loro emozioni. O dei loro ricordi. Attimi di vite aliene, diverse dalla mia, che vedevo con i miei occhi e sentivo con le mie orecchie e la mia pelle, senza sapere di chi erano, se era uomo o donna, vecchio, bambino, umano; senza sapere cosa c’era prima o cosa c’era dopo.
E avevano sempre un sapore più vero della mia, di vita.
E avevano sempre un sapore buono e un retrogusto amaro.
E regalavano malinconia.

E vivevo in questo modo nella mia casetta di pietra, fatta quando ancora tra il paese e la più vicina città c’erano centinaia, più probabilmente migliaia, di alberi, tanta terra e qualche fiume.
Ma, quando ci abitavo io, la città arrivava fino alla mia casetta, la accerchiava, la superava e proseguiva per un bel pezzo, al di là della curvatura della Terra, dietro l’orizzonte.
E me ne andavo a lavoro, a passeggio, a letto col mio inseparabile sciame di fantasmi, mai da solo, mai in silenzio.

La mia casetta aveva due piani, o quattro a seconda dei punti di vista. Volendo essere completi e partire dal basso verso l’alto c’erano: una piccola cantina, con una decorosa riserva di buoni vini; un piano terra con un ingresso, una piccola cucina, un piccolo bagno e un bel salotto con un grosso tavolo, un divano, due poltrone, un camino e un tappeto; un piano di sopra con due camere da letto e un bagno un po’ più grosso; una piccola soffitta con un piccolo abbaino.

Il mio sciame di fantasmi, compagnia inseparabile, mi seguiva a lavoro, nella mia biblioteca; aleggiavano placidi tra le lunghe file di scaffali, tra migliaia, forse milioni, di libri nuovi, vecchi e antichi. Sempre fluenti, sempre in movimento, ma più lenti e rilassati, come a riposo, come in torpore.
E là, in mezzo a tutta quella carta, lettere e inchiostro, sembravano trovare forse un po’ di pace.

Dei fantasmi, gli uomini non si accorgevano. Ti stringevano la mano – mi stringevano la mano –, ti davano pacche sulle spalle, bevevano birra con te, ridevano e raccontavano storie. E infatti gli amici non mancavano mai. Non che parlassi molto, ma, quando la volevo, avevo buona compagnia.
Ma le donne, le donne se ne accorgevano eccome!
Le donne e gli animali.
Gli animali li sentivano bene, i fantasmi, e forse li vedevano anche. I gatti ne erano affascinati, e correvano a farsi lisciare il pelo, amavano starmi in braccio anche per ore a fare fusa senza posa, si strusciavano sulle mie gambe e, in generale, mi seguivano con curiosità e piacere.
I cani ne erano spaventati, intimoriti, e provavano un rispetto istintivo. Non si avvicinavano mai di loro iniziativa, ma venivano obbedienti quando li chiamavo, e si lasciavano accarezzare, docili e mansueti, aspettando pazientemente che dessi loro il permesso di andare via.
E i fantasmi e io sembravamo essere una cosa sola.
Le donne li sentivano, certo. Li sentivano tutte. Non che li vedessero, ovviamente; né, tranne forse casi molto rari, erano coscienti della loro presenza, o della semplice percezione di una qualche presenza.
Ciò nonostante, li percepivano. In principio ne erano attratte, e così erano attratte da me. I miei fantasmi e io le incuriosivamo, le affascinavamo. Tendevano a noi: a gettarsi nel vortice del loro volo perpetuo, a venire tra le mie braccia.
Ma dopo poco tempo provavano disagio. Forse la presenza diventava opprimente, soffocante. Forse dopo un’evasione dall’ordinario, che raramente viene loro concessa, la voglia di normalità si faceva man mano più forte della curiosità. E allora si allontanavano; perplesse, spesso malinconiche, sempre dubbiose; comunque, si allontanavano.
E i fantasmi e io sembravamo essere una cosa sola.


[Continua]

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